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[Rubrica: Dropletting – verso un porno intersezionale post-pandemico]

Nella presente distopia pandemica in cui il contatto umano, ancor più se basato su uno scambio di fluido salivare, appare sempre più mortificato in qualità di veicolo virale, giunge inderogabile un ripensamento della canonica pratica erotica. Grazie a una joint venture tra Porn Hub e “Ciclotimici insonni che scrivono post bislacchi mentre ascoltano Ghosteen di Nick Cave e piangono”, sono lieta di annunciarvi ufficialmente la creazione della categoria “Dropletting”, primo miliare traguardo nell’ambito di una campagna promozionale per l’intersezionalizzazione dell’industria pornografica. Il Dropletting, che si configura come un isotopo dello spitting ibridato con alcuni principi teorico-pratici del bondage, prevede una sequenza di azioni da eseguirsi rigorosamente in ordine per garantire la messa in sicurezza di tutte le parti in gioco:

1) Partner 1 chiede il consenso di Partner 2. Tutte le parti devono aver compiuto la maggiore età. Il consenso, non è mai superfluo ricordarlo, può essere ritirato in qualsiasi momento della procedura.
2) Se Partner 2 fornisce il consenso, Partner 1 procede a imbavagliarl* con mascherina chirurgica (preferibilmente cucita in casa con tessuti di riciclo) + visore in finto plexiglass (spaccate un barattolo di vetro della marmellata e scegliete una scheggia con un’area sufficientemente larga per coprire la bocca di Partner 2). Successivamente Partner 1 lega i polsi di Partner 2 con una molletta chiudi pasta di fortuna al suppellettile che si ritiene più consono allo svolgimento della procedura.
3) Partner 1 si pone a una distanza di sicurezza di almeno due metri da Partner 2. Se vivete in un monolocale, vi è consentito ridurre la distanza a 150 cm, ma fatevi prima un paio di sciacqui con il collutorio per ridurre il margine di rischio di contagio.
4) Previa consultazione delle parti, si stabilisce una playlist di sottofondo. Grazie a una partnership con le principali piattaforme di music streaming, trovate già disponibili delle compilation su misura. Consigliamo la tripletta in crescendo Pensiero Stupendo, Self Control nella versione di Laura Branigan (RAF ce lo teniamo per Battito Animale) e Love Will Tear Us Apart per un pizzico di gotico.
5) Partner 1 a ritmo di musica indirizza verso Partner 2 il numero di sputi con quest* preventivamente concordato.
6) Si gira il vinile sul lato B, che si apre con Strani Amori di Laura Pausini e si chiude su Closer dei NIN e ci si scambia ruoli e posizioni.

Il carattere intersezionale del Dropletting è innegabile: non determina discriminazione di genere e orientamento sessuale alcuna, il numero dei Partner 1 e 2 è variabile, pertanto ben si adatta a relazioni monogame, poligame (qualora l’ordinamento giuridico lo consenta) e poliamorose (che è cosa diversa, leggete Laurie Penny per approfondimenti). Programmaticamente anti-razzista e anti-classista (appartenenza etnica e ceto sociale sono elementi che non rilevano ai fini della sua esecuzione), con aspirazioni eco-ambientaliste (il leather tipico del bondage stava cominciando a porre criticità etiche ineludibili), finalmente anti-abilista: l’unica prerogativa per praticarlo è il possesso delle ghiandole salivari, componente anatomica assegnata in dotazione alla nascita a un numero piuttosto consistente di esseri umani.

Durante questo weekend lungo che ci vedrà finalmente in casa, disabituati come eravamo a farlo negli ultimi tre mesi, vi chiedo di sperimentarlo e di farmi pervenire dei feedback il più possibile accurati. Al contrario dei Comitati Tecnici Governativi, io e Pornhub riponiamo grande fiducia nella raccolta dei dati e nell’applicazione del metodo scientifico. Io, che non ho partner (e ce mancherebbe pure, direte, stai fori come una pigna), mi cimenterò nel mirror-dropletting, upgrade di nicchia ancora in fase di testing su volontari senza dignità da perdere.

Ci aggiorniamo domenica. Vi ringrazio per la preziosa collaborazione e vi auguro un buon 1 maggio (e una buona vita) libero dai lavori forzati.

arancina
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[Dalla retorica della “concessione” all’etica del “desiderio”: verso una narrazione del cibo libera dalla vergogna]

"You're the first person I've met who didn't become a pastry chef after suffering a nervous breakdown in a corporate job."

Nell’ultimo decennio il mercato editoriale e audio-visivo ha assistito alla ribalta della food industry, una parola-mantello che raccoglie in sé una gamma eterogenea di settori produttivi con le loro specifiche figure professionali: a seguito dell’avvento di internet, alla tradizionale attività di ristorazione (in cui il modello francescano “ultima cena” con liquore al finocchietto abbazia-made ha progressivamente ceduto il posto ai brunch in pigiama dei bistrot milanesi a vocazione hygge, passando per il medioevo delle pennette alla vodka nelle tavole calde anni ’80 sulla riviera romagnola), se ne sono affiancate altre che hanno contribuito a rimodellare l’esperienza del cibo a tutto tondo, come la food photography e il food-blogging.

Nel substrato culturale italiano il cibo, prima che strumento volto a soddisfare un preciso fabbisogno nutrizionale, ha spesso rivestito il ruolo di fattore di aggregazione sociale, a partire dalla dimensione familiare. La tavola da pranzo, e la cucina tourt court, non si limitano a essere rispettivamente pezzi di arredo e vani abitativi, perché al di là del loro carattere materico, esprimono un vero e proprio modo di stare al mondo “insieme”, come collettività prima che come singoli. Tra gli spaghetti di una cacio e pepe da Felice a Testaccio troverete tutti i secoli di storia racchiusi in un’intera stagione podcast di Barbero. Il cibo è funzionale per tenerci in vita, dunque, ma serve anche a mantenerci vivi, compito che ha ben poco a che vedere con la clinica e i parametri ematochimici e molto di più con la sfera del desiderio.

L’associazione tra vita e desiderio si fonda sul bisogno di progettualità: se dentro di me intravedo, seppur emaciata e ingobbita, la voglia di progettare, di immaginare un futuro (o un presente a medio raggio per i più disfattisti come me), sono ancora in grado di desiderare. Di provare desiderio e nutrirlo. Nel corso della mia seconda anoressia, tra il 2017 e il 2019, ho sperimentato quello che ho poi riconosciuto come un prolungato stato di “assenza del desiderio”, o meglio il solo desiderio rimasto era di segno negativo che, attraverso la fame, si proponeva la progressiva distruzione del corpo. Ogni caloria assunta senza essere bilanciata da un’estenuante dose di movimento fisico (nei bistrot milanesi diremmo work-out, ma immaginiamoci in quarantena in coda fuori dall’osteria dell’Orsa ad aspettare le tigelle col sangiovese) si traduceva in una deviazione da quel proposito, una “concessione” a un desiderio di segno opposto. L’atto stesso di mangiare, a conti fatti, che si trattasse di una foglia di radicchio o di una giara di besciamella, si configurava come una trasgressione a un rigido sistema di regole e rituali auto-imposto a cui, per contrappasso, seguiva una punizione di ugual peso.

Tuttavia, se in una missione di scavo etimologico riesumiamo dalla cantina il Castiglioni-Mariotti, scopriremo che dal lat. concedĕre «ritirarsi dinanzi a qualcuno, cedere, arrendersi», comp. di con– e cedĕre «cedere». Concepire il mangiare come un atto di concessione ci porta a interiorizzare un’associazione sbagliata – nonché tossica – tra il concetto di nutrimento e quello di resa, che è il presupposto teorico su cui si basa la maggior parte dei protocolli dimagranti e al contempo l’elemento strutturale che ne determina l’altissima percentuale di insuccesso in termini statistici. L’obiettivo di un protocollo alimentare, a meno che non venga adottato per far fronte all’insorgenza di specifiche patologie (vedi dieta a-glutinata in presenza di celiachia), non deve essere quello di adeguarci a un status quo di “privazione” in cui la pizza del sabato sera ci viene prescritta come un farmaco palliativo in un regime di accanimento terapeutico. Il desiderio è una falla, ma il tuo dietista lo sa, per quanta disciplina tu possa importi, prima o poi il desiderio avrà la meglio. Per questo prevede nel tuo diario alimentare una pizza a settimana. Ti viene incontro affinché tu, dopo sei giorni di spinaci al vapore e merluzzo senza sale, non saprai opporre resistenza al richiamo delle viscere. Così la tua agognata serata pizza si trasformerà in un pensiero ossessivo-ricorsivo che, sul piano emozionale, troverà i suoi correlativi oggettivi. nella vergogna e nella colpa invece che nella soddisfazione del piacere.

A partire dal secondo dopo guerra si sono affermati nuovi standard di bellezza, soprattutto in relazione al corpo femminile. Standard arbitrari, ça va sans dire, ma che hanno posto le basi per una gerarchia piramidale dei corpi, in cui la validità della persona è commisurata al proprio indice di massa corporea. Non è un caso che il movimento della body positivity e della fat acceptance emergano con l’ondata del femminismo anni ’60, in un mondo in cui il formato “Twiggy” si stava velocemente imponendo come modello unico di corpo valido, legittimato a essere amato, accolto e nutrito (in un regime di stretta sorveglianza, ça va sans dire).  La validità richiede rigore, auto-controllo, repressione delle vulnerabilità. L’accettazione dei nostri corpi e la nostra valorizzazione come persone (in un cortocircuito metonimico per cui la persona si riduce al suo corpo) passa per la sottomissione volontaria a standard di bellezza in cui la maggior parte di noi non si rispecchia, ma la cui mancata adesione ci induce a percepirci come fallimentari. Costituzionalmente inadatti. Destinati a non essere amati e incapaci di dare amore.  Non autorizzati a desiderare e a essere oggetto di desiderio.

L’ultimo decennio, lo ricordavamo all’inizio, ha riportato il cibo al centro degli incontri e delle conversazioni, i feed social pullulano di video ricette, i blog di cucina si replicano a una velocità superiore del virus SARS-COVID-19. Le logiche di concessione/repressione che hanno informato il nostro rapporto con il cibo nell’ultimo mezzo secolo cominciano a essere messe in discussione? Al contrario, basta digitare l’hastag #food nella barra di ricerca di Instagram per comprendere quanto il cibo occupi i luoghi della comunicazione principalmente in qualità di brand. Posto che in un’economia di libero mercato l’influencer abbia il diritto di brandizzare e monetizzare il proprio quotidiano (e non credo che sparare a zero sui #Ferragnez sia funzionale a de-strutturare una secolare gerarchia di poteri fondata sullo sfruttamento del corpo come strumento di dominio e a cui neanche il brand #Ferragnez stesso è immune – il problema è proprio qui: esiste un’alternativa?), ogni “foto-sacher” contiene una catena di implicazioni estremamente dannosa per il fruitore: ho di fronte una donna (anche se si riscontra un numero crescente di maschi super healthy che hanno imbottigliato uno stereotipo alternativo di mascolinità negli estratti di barbabietola e semi di chia), che a ogni colazione mi porge una torta da 14.000 calorie per fetta, mentre io centellino sulla bilancia i fiocchi di muesli. Questa donna (che è in genere è bianchissima, magrissima, cis-genderissima e completamente depilata) in combinato a una voluttuosa montagna di cioccolato promuove un corpo che non è il mio, e che probabilmente non sarebbe neanche il suo se non si sottoponesse a un regime di fame forzata + maratona di 42 km al giorno in terrazzo (d’altronde siamo ancora in Fase 1);  incarna degli standard da cui non mi sento rappresentata ma non riuscire ad attenermici mi provoca vergogna perché denota la debolezza del mio auto-controllo; infine mi stimola un’urgenza di trasformazione che non mi appartiene, ma alla quale non ho desideri da opporre perché sono abituata a nutrirmi per sottrazione, a reprimere l’impulso, a negativizzare il desiderio.

Per tutto questo ambaradàn, nell’utopia di un mondo post-pandemico in cui il contatto umano torni a essere un automatismo, vorrei incoraggiare un’iniziativa presso le associazioni e le strutture che si occupano di disturbi del comportamento alimentare: organizzare dei laboratori di cucina per accompagnare le persone che ne soffrono in un percorso di rieducazione al cibo, finalmente svincolato dallo stigma della vergogna, guidato non più da una retorica della “concessione” ma da un’etica del “desiderio”.

Che sia una buona liberazione per tutt* noi.

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[Tre fun facts, un tovagliolo e – tra le altre cose – il MES]

peracomics-274-2Ieri pomeriggio, mentre ancora gongolavo in uno stato di frastornato incantamento dopo la diretta streaming di Silvia Federici, ospitata sulla pagina Facebook di Derive e Approdi Editore in occasione della pubblicazione della sua nuova raccolta di saggi “Genere e Capitale – Per una lettura femminista del marxismo”, mi sono imbattuta in due (not really) fun facts sui quali, se la nostra conoscenza del mondo per come l’abbiamo esperito finora non fosse quotidianamente destrutturata dagli effetti della pandemia da COVID-19, saremmo anche riusciti a farci della satira, esorcizzando attraverso il riso l’inadeguatezza di quell’approccio tutto italico alla risoluzione dei problemi che del mantra “tocca mettecene ‘na pezza” si è fatto pioniere e primo esportatore nel mondo. Tuttavia, il quadro sanitario e socio-economico in cui oggi siamo impaludati è ben altro da quello che ci si prospettava a fine febbraio. Il riso, credo per una buona parte di noi, non è più in grado di svolgere il ruolo di valvola catartica di fronte a una gestione e comunicazione della crisi non soltanto disorganizzate, irresponsabili e evidentemente disinteressate alla tutela della salute pubblica, ma anche irrispettose verso l’intelligenza e i bisogni concreti dei cittadini.

Primo (not really) fun fact: la Regione Lombardia e “C’era una cosa che dovevam fare – ma cosa? Iniziava con la C, cos’era? Il calzone fritto di Luini? Ah perdindirindina, la richiesta per la CASSA INTEGRAZIONE!”

In una diretta Instagram di Lia Quartapelle vengo a scoprire che la giunta della Regione Lombardia – la quale in data 17 aprile 2020 sulla base degli ultimi dati rilasciati dalla Protezione Civile registra 64.135 casi positivi, 11.851 morti e un tasso di letalità del 18,5% (i dati sono inattendibili, lo sappiamo, ma ci aiutano a tratteggiare la gravità della situazione, seppur per difetto nel numero di contagi e decessi) – soltanto il 15 aprile, ovvero a oltre un mese dall’inizio del lockdown, ha emanato gli atti necessari a erogare la cassa integrazione in deroga all’INPS ai lavoratori lombardi. 

La CIG in deroga, leggiamo in un avviso pubblicato il 25 marzo nel sito di Regione Lombardia, è un ammortizzatore sociale che in caso di gravi crisi che colpiscono l’economia interviene a sostegno di datori di lavoro, imprese e lavoratori dipendenti di qualunque settore e tipologia, per evitare licenziamenti. Essa prevede la corresponsione, da parte dell’INPS, di una indennità mensile per tutti i coloro che hanno dovuto sospendere l’attività o ridurre le ore di lavoro […] Con i Decreti-Legge n. 9/2020 e n. 18/2020, nell’ambito delle misure urgenti connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, è stata pertanto prevista la reintroduzione dello strumento della Cassa Integrazione Guadagni in Deroga. In questo contesto, dopo una analisi complessiva della situazione e la condivisione di obiettivi e regole, il 23 marzo scorso Regione Lombardia e Parti Sociali hanno sottoscritto l’Accordo Quadro che stabilisce i criteri di accesso a tale strumento”.  Come riportava Varese News in un articolo del 14 aprile : “[…] In mancanza degli adempimenti da parte di Regione Lombardia, previsti dallo stesso accordo, delle incombenze poste in capo ad essa e relative alla trasmissione dei dati necessari per il transito via INPS dell’erogazione dei fondi stessi, i lavoratori rischiano di vedere contestate le somme a loro versate a titolo di anticipo, da parte degli istituti di credito”.

A tutt’oggi la giunta Fontana non ha chiarito le motivazioni alla base di questo gigantesco ritardo nell’approvazione del Fondo di anticipazione sociale 2020 e nella trasmissione dei dati all’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale.

Secondo (not really) fun-fact: A vulisti a bicicletta, ora pidala

Stante la necessità da parte degli organi istituzionali a livello locale, nazionale e trans-nazionale di implementare una visione coordinata sempre più pro-green delle infrastrutture e dei trasporti, recepire dalla task force a guida Colao come prima iniziativa nel piano della messa in sicurezza dei mezzi pubblici “un incremento dei finanziamenti per la produzione delle biciclette elettriche e per la costruzione di nuove piste ciclabili” è ragione sia di paura che di rabbia sociali. Difatti, sebbene il sindaco di Milano in diretta video da Palazzo Marino abbia elogiato la creatività della proposta strizzando l’occhio agli hipster e ponendo strumentalmente l’accento sulla sua eco-compatibilità, il messaggio trasmesso dalla task-force in soldoni può tradursi come segue: “NON USATE I MEZZI PUBBLICI, A MENO CHE NON VI SIATE TRITURATI UN BRACCIO NELLA PLANETARIA MENTRE PREPARAVATE L’IMPASTO DELLA PIZZA, ABITATE DA SOLI, NON SIETE AUTO-MUNITI O VI RIESCE UN FILO OSTICO GUIDARE CAUSA BRACCIO A PENZOLONI E NON CI SONO AMBULANZE DISPONIBILI PER TRASPORTARVI AL PRONTO SOCCORSO NEL GIRO DI 5 MINUTI – A QUEL PUNTO TANTO VALE CHE PRENDETE LA METRO DATO CHE DOVRETE ENTRARE IN OSPEDALE E AVRETE IL 110% DI PROBABILITÀ DI BECCARVI L’INFEZIONE DA COVID-19, SENZA MANCO ESSERVE MAGNATI LA PIZZA”.

Voi ribatterete: sì, ma questa è solo una delle iniziative, la prima che è stata messa sul tavolo delle discussioni. Appunto, è stata la prima a essere avanzata e sopratutto mediatizzata. Proposte di questo tipo contribuiscono a esacerbare una tensione sociale che nelle diseguaglianze si alimenta e si cronicizza. Se io lavoro in un impianto chimico di Treviglio, non sono auto-munito e il solo mezzo che ho per raggiungere il luogo di lavoro è la combinazione treno + bus, sarò obbligato a fruire di mezzi pubblici che implichino rotaie, binari, vagoni. E  pretendo che la mia salute goda di misure di tutela altrettanto valide a quelle applicate al Sig. Fumagalli che ha l’appartamento in Città Studi e in dieci minuti a piedi arriva nel suo ufficio in Piazzale Loreto. Propendere per l’adozione di soluzioni posticce e riservate a un numero circoscritto di soggettività rischia, da una parte, di rallentare il piano di riprogrammazione di infrastrutture e trasporti indispensabile sul medio-lungo termine; dall’altra di favorire alcune classi di lavoratori a discapito di altre, inasprendo ulteriormente la discriminazione sulla base di parametri  tra loro interconnessi quali PIL pro-capite, tipo di lavoro svolto, distanza geografica tra abitazione e luogo di lavoro, appartenenza etnica, disabilità etc. (perché, sebbene il divario numerico nei decessi e contagi tra categorie di soggettività diverse salti più all’occhio in realtà come gli Stati Uniti, la razzializzazione, il classismo e l’abilismo sono denominatori comuni trans-nazionali nella manifestazione e nella narrazione di questa crisi).

In conclusione, una storia pedagogica sulla querelle MES o non MES e che ha per protagonisti me, una mela e tre tovaglioli. 

Alle 15.30 del 4 ottobre 2018, nelle mie 24 ore di permanenza presso l’Unità Operativa Psichiatrica nel reparto “Disturbi del Comportamento Alimentare e Ansia Generalizzata” di un ospedale di Milano, una voce robotica mi convoca nel loculo-refettorio per consumare la merenda che consisteva di una mela e di una tazza di orzo delle dimensioni di un vaso per Bouganville, la cui suzione mi ha permesso di risolvere in anticipo tutti i problemi di ritenzione idrica che sarebbero insorti da qui alla mia dipartita. Ebbene, la mela giaceva su un mini-tovagliolo, di quelli da bar per pulirsi la bocca insozzata di crema pasticcera prima di tumularsi in ufficio (se anche voi vibrate di nostalgia al solo ricordo della texture ruvida della carta e vi state strofinando contro la guancia la spugnetta abrasiva per lavare i piatti, sul sito del Ministero della Salute reperite facilmente i numeri per lo sportello di ascolto psicologico regione per regione).

Sul tavolo non ci sono piatti, ma mi viene fornito in dotazione un coltello di plastica affilato quanto le forbici dalla punta arrotondata di Dodò. Inizio lentamente a sbucciare la mela (a causa di un cortocircuito genetico avvenuto al momento del concepimento non ho mai sviluppato la capacità dei primate di utilizzare il pollice opponibile, il che mi rende la sbucciatura della frutta un’attività difficoltosa già con una sega elettrica – laddove possibile, la delego ai/alle coinquilini/e o mangio banane e mandarini che non richiedono l’impiego di posate), per trenta minuti le ausiliarie (che per esigenze di tutela della privacy chiameremo Pinco e Panco) mantengono uno sguardo inquisitore fisso sulle mie mani che si incartano l’una sull’altra tra filamenti di buccia come nella frenesia tipica dei passaggi conclusivi di Milikituli. Mi guardano e pensano: pesi 34 kg, hai 29 anni e non sai neanche sbucciare una mela, vedi dei motivi validi per vivere? Dopo aver desunto con sconforto un certo grado di insofferenza nella loro postura, con le dita incollate di succo di mela, chiedo di avere un paio di tovaglioli extra.

Silenzio tombale. Gli occhi delle ragazze sedute al tavolo con me, fino a quel momento ingobbiti sulla pozione drenante di orzo, scattano in su, attraversate da un guizzo di paura elettrica. Dallo zenit di spigolosità degli zigomi di Pinco e Panco, capisco che la mia richiesta nel loro regno prevede come pena minima la ghigliottina. “Mmm, non è possibile avere dei tovaglioli in più?” domando, cercando di fingere una socievolezza che di secondo in secondo si fa sempre più inappropriata, mentre mi cresce dentro  a dismisura  il senso di colpa derivante dalla consapevolezza che “non solo il mio ricovero grava sul sistema sanitario nazionale, ma il mio surplus di tovaglioli avrà come effetto butterfly la chiusura di una mensa per senza tetto in Nicaragua”. “Sei nuova, perciò non potevi saperlo, ma no, non puoi avere altri tovaglioli”, ribatte Pinco con la voce che immagino abbia Alexa nel braccio della morte. “Per oggi ti diamo un altro tovagliolo, ma da domani devi imparare a usare le risorse che hai a disposizione” le fa eco Panco, che ha poi applicato per una vacancy nel Ministero dell’Economia olandese. “Ma perché, scusatemi”, domando io con un piglio insolente, auto-scritturandomi come stunt-woman  di Angelina Jolie in “Ragazze Interrotte, “Per quale motivo non possiamo  avere altri tovaglioli?”. Pinco e Panco, all’unisono come nei peggiori incubi gemellari di Kubrick, dichiarano senza diritto di contraddittorio: ” È una questione di principio, è la regola”. 

Morale: è infinitamente stupido rifiutare per una questione di principio, in difesa di equilibri di potere e di polarizzazioni ideologiche, i 36 miliardi che sarebbero stanziati all’Italia tramite l’attivazione del MES, senza vincoli di condizionalità, per garantire interventi di ristrutturazione di un SSN allo sbando con un capitale umano allo stremo?

Infinitamente sì.

 

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[Di vulvodinia, gender-spectrum e del caso Telegram: di come sommare le mele e le pere e trovarsi con un giardino di ciliegi]

 

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Nell’ultima settimana abbiamo letto e ascoltato molti contributi in rete in materia di revenge porn a seguito della ri-eplosione del caso Telegram: giornalisti, giuristi, psicologi e attivisti – soprattutto con un background di femminismo intersezionale – hanno creato spazi di dibattito utilissimi, lanciato campagne virtuali di mobilitazione, ripreso in mano il testo del DDL contro la violenza domestica e di genere approvato il 17 luglio 2019, mettendone in luce le criticità interpretative e i limiti attuativi. Dopo alcuni giorni dalla pubblicazione dell’articolo di Wired, una serie di pensieri e stati d’animo isolati tra i quali fino a quel momento non avevo identificato un legame di causalità, hanno cominciato ad articolarsi in un discorso strutturato, permettendomi di leggere in una prospettiva inedita la mia lotta col corpo degli ultimi cinque anni.

Nel novembre del 2014 ho iniziato a soffrire di un insieme di problematiche all’apparato uro-genitale che, dopo oltre sei mesi di peregrinazioni tra uno studio ginecologico e l’altro, mi hanno restituito la diagnosi di vulvodinia associata a neuropatia del nervo pudendo. La vulvodinia, come potete leggere nel sito di VIVA – Vincere Insieme la Vulvodinia (la prima associazione di donne che da anni in Italia cerca di portare la patologia all’attenzione dei media, del Ministero della Salute e degli operatori sanitari specializzati in ginecologia, ostetricia e neuro-urologia), è  una neuropatia cronica che interessa la regione vulvare, provocata da un’infiammazione delle terminazioni nervose della vulva. I fattori scatenanti possono essere molteplici: tra i più frequenti si annoverano infezioni genitali ripetute, come la candida; l’uso di contraccettivi orali; l’affezione da malattie auto-immuni; traumi della mucosa avvenuti a seguito di parto/interventi chirurgici etc. Allo stesso modo il quadro sintomatologico varia enormemente tra un soggetto e l’altro: alle più comuni manifestazioni di prurito, secchezza e bruciori vaginali (da cui nella maggior parte dei casi deriva una condizione di dispareunia che rende il sesso penetrativo estremamente doloroso, se non impossibile) si possono sommare disordini di carattere urologico, come aumento della frequenza minzionale, bruciore uretrale, sensazione costante di peso vescicale nell’area sovra-pubica. Inoltre, diverse donne presentano co-morbilità associate spesso di natura auto-immune, tra le quali hanno una rilevante percentuale di occorrenza la fibromialgia, alcune patologie a carico dell’apparato gastrointestinale (sindrome da IBS, Morbo di  Crohn, rettocolite ulcerosa), il lupus eritematoso e la cistite interstiziale. Dato il carattere multi-fattoriale e la variabilità del quadro sintomatologico propri della patologia, non sussiste un protocollo di trattamento univoco, al contrario negli ultimi dieci/quindici anni si è sperimentato l’impiego simultaneo di più protocolli, tra cui la terapia farmacologica a base di mio-rilassanti, anti-depressivi e anti-convulsivanti, l’elettro-stimolazione antalgica, la riabilitazione manuale del pavimento pelvico, l’applicazione locale di anestetici in crema, spesso in combinazione con un percorso parallelo di psico-terapia. Non perché, come ancora troppi operatori sanitari insistono ad affermare, la patologia sia il frutto della somatizzazione di un trauma fisico/emotivo subito in passato dalla paziente, quanto piuttosto perché una donna vulvodinica deve imparare a convivere con una malattia cronica che esercita un impatto pesantissimo, a volte con esiti invalidanti, sia sulla sua autosufficienza economica (la patologia non gode ancora del riconoscimento da parte del SSNI, pertanto l’accesso ai protocolli terapeutici avviene per lo più in regime di solvenza presso strutture private), sia sulla sua vita lavorativa (le donne vulvodiniche hanno generalmente difficoltà a stare sedute per lunghi periodi o si devono avvalere di supporti come cuscini ortopedici, cosa che rende la prospettiva del lavoro sedentario d’ufficio fonte ulteriore di stigma sociale e di percezione del proprio corpo come disfunzionale, di conseguenza non valido), ma soprattutto sulla dimensione affettivo/relazionale. Come riportato in molte testimonianze, se si è donne eterosessuali, posta la definizione convenzionale e assolutamente non esaustiva di atto sessuale come penetrativo, l’impossibilità ad avere rapporti con il proprio partner determina non soltanto l’allontanamento dei corpi, ma anche una progressiva frattura nei canali di comunicazione, che rende molto frustrante o addirittura impedisce la condivisione di uno stesso spazio fisico e mentale. La capacità empatica si svuota, ciascuna parte della coppia rimane sola con i propri bisogni e desideri, in un rapporto di radicale estraneità reciproca.

Con il corpo e con la femminilità ho avuto fin dalla pubertà un rapporto travagliato. In questi trent’anni ho vissuto due diverse anoressie, una all’inizio delle scuole medie, l’altra, con risvolti molto più seri in termini clinici, recentemente tra i 27 e i 29 anni. I disturbi del comportamento alimentare, che si manifestino attraverso anoressia, ortoressia o bulimia, sono sempre espressione di una condizione di disagio più profondo, che ha cause remote, il più delle volte difficili da slatentizzare, razionalizzare e verbalizzare. Nel mio caso il modello materno ha esercitato un ruolo importante, fornendomi come riferimento un corpo femminile che al cibo guardava come a uno strumento di mero sostentamento fisiologico, mai di godimento finalizzato a se stesso – un modello che necessitava di un’autodisciplina rigorosa e di meccanismi di auto-repressione severi. Esistere per sottrazione, mantenersi in equilibrio costante, mai oltrepassare il limite. Tuttavia, per quanto molti disordini psicologici abbiano origine nel vissuto familiare, non tutta la responsabilità dei nostri pattern di pensiero/comportamento può essere addossata ai genitori. La mia prima anoressia, e sono approdata a questa consapevolezza soltanto di recente, derivava dall’incapacità di accogliere il radicale cambiamento a cui sarei andata incontro con l’avvento della pubertà. Il mio corpo, biologicamente parlando, sarebbe stato investito da quella serie di trasformazioni che include la comparsa dei caratteri sessuali secondari (la crescita del seno e dei peli pubici, l’allargamento del bacino, l’inizio del ciclo mestruale), strutturandosi nella forma di donna adulta che sono diventata. Allo stesso tempo, di contro, nella mia testa si andava costruendo un’immagine altra, che in quella forma non si identificava e in cui non ha mai potuto abitare veramente. Mi collocavo, e mi colloco tuttora, in un punto x di quell’ampio ed eterogeneo spettro di genere compreso tra i due poli femminile e maschile. Ma da preadolescente, con le nozioni canoniche di educazione alla sessualità e all’affettività che la nostra generazione aveva in dotazione, non ho trovato altro modo che esprimere il disallineamento rispetto alla mia forma se non pianificandone l’annullamento progressivo attraverso una “morte per fame”. Non è che non apprezzassi il mio seno, le mie cosce o i miei fianchi per quanta ciccia ci stava o non ci stava sopra, ma perché il loro insieme mi rimandava un’immagine che vedevo come un corpo estraneo o non pienamente rispondente alla mia auto-percezione.

Dopo un’adolescenza ingolfata dentro maglioni di lana bucati taglia XXL, riadattando Kurt Cobain a guru del fashion, ho cominciato a frequentare alcuni ragazzi e a vivere contestualmente le prime esperienze sessuali. Mentre il mio corpo si “sessualizzava”, il disallineamento rispetto alla mia forma si attenuava. Pensavo di essermi riappacificata con questa condizione di disforia, di aver infine trovato un mezzo per garantire alla mente e al corpo una coesistenza armonica. Il sesso restituiva al corpo una funzione, seppur nella forma in cui si era sviluppato e in cui io non mi riconoscevo. Esistevo come oggetto di desiderio capace di ricevere e restituire piacere (seppur con delle limitazioni importanti nelle modalità espressive, ma questo argomento lo rimandiamo alla fase 2 della quarantena, quando si sarà sciolto circa l’85% dei ghiacciai). Con l’insorgere della vulvodinia quell’equilibrio si è spezzato. Il corpo è tornato a essere uno spazio non più abitabile, malato, disfunzionale o a-funzionale, pertanto non più valido. Così ho ripreso a contrastarlo con tutte le energie e le risorse che avevo a disposizione. Prendo coscienza soltanto ora di aver introiettato un pattern comportamentale tipico del sistema di potere patriarcale, sottoponendo il mio stesso corpo a quel test di validazione che da millenni gli uomini hanno imposto ai corpi delle donne. Il corpo della donna esiste e ha una funzione soltanto come oggetto in grado di soddisfare precise istanze (sesso e procreazione, in primis), altrimenti smette di essere utile e non v’è più ragione di legittimarne l’esistenza.

A prescindere dalla mia storia personale, problematizzando il tema della sessualizzazione e dell’oggettificazione del corpo femminile, il caso Telegram ha riportato in evidenza una criticità che trasversalmente tutte le donne cis e trans-gender si trovano ad affrontare ogni giorno: veder sottoposto, e a volte inconsapevolmente sottoporre (perché anche le donne in questa società, con il suo sistema di valori e il suo squilibrio di poteri, nascono, crescono e vivono), il proprio corpo alla legittimazione attraverso lo sguardo maschile. Si tratta di un gigantesco bias culturale che ci riguarda tutti e che soltanto insieme possiamo cercare di scardinare.

Nella mia esperienza di donna vulvodinica o – d’ora in poi mi prendo il diritto e il dovere di riconoscerlo –  di persona vulvodinica, la sottrazione della componente sessuale nella vita affettiva ha esercitato un peso enorme perché ha inceppato il mio meccanismo di auto-validazione; allo stesso tempo dalla parte opposta, non ho trovato un interlocutore che fosse in grado di recepire i miei desideri e i miei bisogni e di cercare insieme a me modalità di espressione dell’affettività alternative e/o complementari a quelle convenzionali. Questo non è un atto d’accusa: nutro un affetto profondo e autentico per il mio ex-compagno, mi ha insegnato ad approcciarmi al quotidiano con la leggerezza e il pragmatismo che nella mia famiglia sono sempre mancati, ma entrambi non avevamo le risorse emotive e cognitive necessarie per rieducarci e rimodularci sia come singoli che come coppia al di fuori delle classiche strutture relazionali etero-normate. Il mio errore fin dalla pubertà, ma soprattutto in questi ultimi cinque anni, è stato quello di insistere testardamente a ricavarmi un posto nella sghangheratissima banda di finzione delle persone normali; sforzare di adattarmi a strutture di pensiero, modelli di comportamento e costrutti di genere e di relazione a cui non potevo o non volevo conformarmi; ma sopra ogni cosa, legare la validazione del mio corpo a un principio di funzionalità (corpo sano vs. corpo malato) e al giudizio di valore che lo sguardo del mondo esterno (e il mio sguardo interno fino a poco fa) mi restituiva unicamente in qualità di oggetto strumentale all’esercizio del piacere (e, di conseguenza, di un certo grado di potere).

Tutti i corpi sono validi, a prescindere dal sesso biologico, dal genere e dall’orientamento sessuale, dal peso, dal colore della pelle e dalle loro condizioni di salute. Accartocciamo ‘sti diari alimentari e affondiamo l’uovo di Pasqua. Olè.

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[Me lo spieghi come se avessi sei anni]

Ci insisto anche di domenica mattina, prima di mettermi a preparare una torta salata radicchio e patate con così tante uova da poter rivendicare il diritto alla maternità della “Quiche Lorraine sbagliata” ibridata col Paris Brest. Ci ho già la risposta congelata nel freezer alla toto-domanda “Che fai per Capodanno 2021?”, festività nella quale, facendo fede alle promesse che ci siamo scambiati su Whatsapp nell’ultimo mese e mezzo, ci troveremo tutti insieme a Milano dalle aree più disparate del pianeta a celebrare in una petroniana notte di gozzoviglie Pasqua, Pasquetta, il 25 aprile, il 1 maggio, il 2 giugno, Ferragosto e soprattutto il mio compleanno, che sceglierei come nuovo anno zero da cui ricominciare a calcolare il tempo in un mondo post-pandemico libero dalle uova, dalle polarizzazioni manichee che ci vedono schierati gli uni contro gli altri come galli nelle lotte clandestine, ma soprattutto da una cultura di “informazione tossica”, che continua a essere promossa e sfruttata da molti attori istituzionali e mediatici come strumento di controllo, riorientamento e capitalizzazione delle paure più primordiali dell’essere umano – la solitudine, la malattia e la morte.

Ci insisto perché l’ordinanza di Regione Lombardia sull’imposizione dell’utilizzo delle mascherine denota tre errori riscontrati cronicamente nella gestione istituzionale della pandemia da COVID-19 fin dalla sua insorgenza.

1) Lo scollamento dalla realtà dei fatti.
Regione Lombardia è a conoscenza, mi auguro, che per i cittadini risulta già un traguardo trovare al supermercato i guanti per pulire il water – richiedere per legge di indossare le mascherine per uscire di casa quando sulle vetrine di ogni farmacia milanese campeggia a caratteri cubitali la sconfortante informativa “MASCHERINE ESAURITE, NON SAPPIAMO SE E QUANDO RITORNERANNO” instilla un senso profondo di abbandono e spaesamento, dai quali non può che conseguire una crisi di fiducia nella correttezza e consapevolezza dell’operato da parte delle istituzioni.
2) La trasmissione di un messaggio fuorviante e pericoloso perché anti-scientifico.
Richiedere per legge di uscire di casa muniti di mascherina OPPURE di una sciarpa/foulard determina la diffusione di un’informazione non vera, ovvero “una sciarpa ti garantisce lo stesso grado di protezione dal contagio di una mascherina con filtro FFP2 o FFP3”. Da cittadino, spaventato per la mia incolumità e quella dei miei famigliari, se non ho a disposizione le risorse culturali e cognitive per mettere in discussione quest’assunto, ci credo. Così come credo alle mascherine fai da te con la carta forno intrisa dell’olio dell’ultima parmigiana che ho infornato o modellata con gli scampoli di carta regalo avanzata da Natale. Ci credo perché non ho alternative, perché per finalizzare il check-out della mia spesa on-line ho sudato così tanto come non capitava dalla corsa contro il tempo su Ticket-One per accaparrarci i biglietti dei Pearl Jam nel 2018 (e io scrivo dentro la bolla del privilegio di chi non ha figli, ha una madre autosufficiente, ha ancora un lavoro e uno stipendio con cui pagare l’affitto – non tutti possono concedersi lo spazio-tempo di queste riflessioni perché la loro priorità è sopravvivere e garantire una prospettiva di futuro alle proprie famiglie).
3) L’incapacità di implementare un approccio realmente trans-nazionale e multidisciplinare.
Questa pandemia nasce come una crisi di salute pubblica che si è rapidamente tradotta in un’emergenza socio-economica di carattere globale. L’adozione di provvedimenti su base nazionale (o addirittura regionale/statale nel caso degli stati federali – Caso Italia: a quali soggetti e in base a quali parametri effettuiamo i tamponi? Caso US: perché Andrew Cuomo ha imposto il lockdown sullo Stato di NY mentre il governatore della Georgia ha ammesso di aver scoperto solo due giorni fa che anche gli asintomatici possono essere contagiosi?) senza un coordinamento sulla tipologia e sui tempi di attuazione delle misure genera una risposta fallimentare già in partenza. Se in un mondo così interconnesso, sprofondato in una crisi trans-nazionale, il bene comune si declina come sopravvivenza della MIA collettività (e spesse volte soltanto di una porzione infinitesimale al suo interno) a discapito di tutte le altre, le fondamenta non possono che cedere. La rimonta del localismo nella ridefinizione del concetto di bene pubblico si inserisce in quell’eterogeneo crescendo di -ismi (razzismo, sessismo, classismo, eteronormatività e cis-genderismo, maschilismo, fascismo etc.) che ha permesso l’ascesa delle c.dette democrazie illiberali e ne ha legittimato la trasformazione in autocrazie (previo voto parlamentare come nell’esempio ungherese della scorsa settimana).
Oltre a essere scoordinata a livello sovra-nazionale, anche nei singoli Stati la risposta istituzionale è dissezionata tra innumerevoli centri di potere che non sembrano comunicare tra loro o non sono in grado di coordinarsi in un dialogo prospettico. Non si può parlare di cassa integrazione per i lavoratori dipendenti, senza elaborare un piano strutturato di medio-lungo corso per gli autonomi e quelli al nero. Non si può affermare che l’approvvigionamento dei beni di prima necessità, come alimentari e farmaci, sarà garantito se abbiamo gli autotrasportatori fermi alle frontiere e i campi pieni di asparagi e fragole già marci per essere raccolti, senza implementare dei provvedimenti per la regolarizzazione e la tutela dei lavoratori stagionali. Non si possono sottoporre gli operatori sanitari a condizioni e orari di lavoro così logoranti senza garantire un servizio di supporto psicologico pubblico h24. Non si possono imporre limitazioni alla libertà di circolazione così restrittive senza considerarne l’impatto sulle carceri, sulle vittime di violenza domestica e sui malati psichiatrici.
Per questo apprezzo e promuovo l’iniziativa che ogni sabato mattina dal 21 marzo l’Associazione Luca Coscioni si impegna a organizzare: quasi quattro ore di dibattito tra esperti autorevoli di vari ambiti, dalla microbiologia alla virologia, dal diritto costituzionale all’ingegneria informatica, dall’economia alla comunicazione. Perché io sul contact tracing potrei anche essere d’accordo, ma rivendico il diritto di conoscere con precisione quali soggetti giuridici gestiranno i miei dati, di che dati stiamo parlando, per quanto tempo e con quali finalità (tutti i podcast li trovate QUI).
Come diceva Denzel Washington in Philadelphia, me lo spieghi come se avessi sei anni.
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