0

[Di vulvodinia, gender-spectrum e del caso Telegram: di come sommare le mele e le pere e trovarsi con un giardino di ciliegi]

 

bodiesall

Nell’ultima settimana abbiamo letto e ascoltato molti contributi in rete in materia di revenge porn a seguito della ri-eplosione del caso Telegram: giornalisti, giuristi, psicologi e attivisti – soprattutto con un background di femminismo intersezionale – hanno creato spazi di dibattito utilissimi, lanciato campagne virtuali di mobilitazione, ripreso in mano il testo del DDL contro la violenza domestica e di genere approvato il 17 luglio 2019, mettendone in luce le criticità interpretative e i limiti attuativi. Dopo alcuni giorni dalla pubblicazione dell’articolo di Wired, una serie di pensieri e stati d’animo isolati tra i quali fino a quel momento non avevo identificato un legame di causalità, hanno cominciato ad articolarsi in un discorso strutturato, permettendomi di leggere in una prospettiva inedita la mia lotta col corpo degli ultimi cinque anni.

Nel novembre del 2014 ho iniziato a soffrire di un insieme di problematiche all’apparato uro-genitale che, dopo oltre sei mesi di peregrinazioni tra uno studio ginecologico e l’altro, mi hanno restituito la diagnosi di vulvodinia associata a neuropatia del nervo pudendo. La vulvodinia, come potete leggere nel sito di VIVA – Vincere Insieme la Vulvodinia (la prima associazione di donne che da anni in Italia cerca di portare la patologia all’attenzione dei media, del Ministero della Salute e degli operatori sanitari specializzati in ginecologia, ostetricia e neuro-urologia), è  una neuropatia cronica che interessa la regione vulvare, provocata da un’infiammazione delle terminazioni nervose della vulva. I fattori scatenanti possono essere molteplici: tra i più frequenti si annoverano infezioni genitali ripetute, come la candida; l’uso di contraccettivi orali; l’affezione da malattie auto-immuni; traumi della mucosa avvenuti a seguito di parto/interventi chirurgici etc. Allo stesso modo il quadro sintomatologico varia enormemente tra un soggetto e l’altro: alle più comuni manifestazioni di prurito, secchezza e bruciori vaginali (da cui nella maggior parte dei casi deriva una condizione di dispareunia che rende il sesso penetrativo estremamente doloroso, se non impossibile) si possono sommare disordini di carattere urologico, come aumento della frequenza minzionale, bruciore uretrale, sensazione costante di peso vescicale nell’area sovra-pubica. Inoltre, diverse donne presentano co-morbilità associate spesso di natura auto-immune, tra le quali hanno una rilevante percentuale di occorrenza la fibromialgia, alcune patologie a carico dell’apparato gastrointestinale (sindrome da IBS, Morbo di  Crohn, rettocolite ulcerosa), il lupus eritematoso e la cistite interstiziale. Dato il carattere multi-fattoriale e la variabilità del quadro sintomatologico propri della patologia, non sussiste un protocollo di trattamento univoco, al contrario negli ultimi dieci/quindici anni si è sperimentato l’impiego simultaneo di più protocolli, tra cui la terapia farmacologica a base di mio-rilassanti, anti-depressivi e anti-convulsivanti, l’elettro-stimolazione antalgica, la riabilitazione manuale del pavimento pelvico, l’applicazione locale di anestetici in crema, spesso in combinazione con un percorso parallelo di psico-terapia. Non perché, come ancora troppi operatori sanitari insistono ad affermare, la patologia sia il frutto della somatizzazione di un trauma fisico/emotivo subito in passato dalla paziente, quanto piuttosto perché una donna vulvodinica deve imparare a convivere con una malattia cronica che esercita un impatto pesantissimo, a volte con esiti invalidanti, sia sulla sua autosufficienza economica (la patologia non gode ancora del riconoscimento da parte del SSNI, pertanto l’accesso ai protocolli terapeutici avviene per lo più in regime di solvenza presso strutture private), sia sulla sua vita lavorativa (le donne vulvodiniche hanno generalmente difficoltà a stare sedute per lunghi periodi o si devono avvalere di supporti come cuscini ortopedici, cosa che rende la prospettiva del lavoro sedentario d’ufficio fonte ulteriore di stigma sociale e di percezione del proprio corpo come disfunzionale, di conseguenza non valido), ma soprattutto sulla dimensione affettivo/relazionale. Come riportato in molte testimonianze, se si è donne eterosessuali, posta la definizione convenzionale e assolutamente non esaustiva di atto sessuale come penetrativo, l’impossibilità ad avere rapporti con il proprio partner determina non soltanto l’allontanamento dei corpi, ma anche una progressiva frattura nei canali di comunicazione, che rende molto frustrante o addirittura impedisce la condivisione di uno stesso spazio fisico e mentale. La capacità empatica si svuota, ciascuna parte della coppia rimane sola con i propri bisogni e desideri, in un rapporto di radicale estraneità reciproca.

Con il corpo e con la femminilità ho avuto fin dalla pubertà un rapporto travagliato. In questi trent’anni ho vissuto due diverse anoressie, una all’inizio delle scuole medie, l’altra, con risvolti molto più seri in termini clinici, recentemente tra i 27 e i 29 anni. I disturbi del comportamento alimentare, che si manifestino attraverso anoressia, ortoressia o bulimia, sono sempre espressione di una condizione di disagio più profondo, che ha cause remote, il più delle volte difficili da slatentizzare, razionalizzare e verbalizzare. Nel mio caso il modello materno ha esercitato un ruolo importante, fornendomi come riferimento un corpo femminile che al cibo guardava come a uno strumento di mero sostentamento fisiologico, mai di godimento finalizzato a se stesso – un modello che necessitava di un’autodisciplina rigorosa e di meccanismi di auto-repressione severi. Esistere per sottrazione, mantenersi in equilibrio costante, mai oltrepassare il limite. Tuttavia, per quanto molti disordini psicologici abbiano origine nel vissuto familiare, non tutta la responsabilità dei nostri pattern di pensiero/comportamento può essere addossata ai genitori. La mia prima anoressia, e sono approdata a questa consapevolezza soltanto di recente, derivava dall’incapacità di accogliere il radicale cambiamento a cui sarei andata incontro con l’avvento della pubertà. Il mio corpo, biologicamente parlando, sarebbe stato investito da quella serie di trasformazioni che include la comparsa dei caratteri sessuali secondari (la crescita del seno e dei peli pubici, l’allargamento del bacino, l’inizio del ciclo mestruale), strutturandosi nella forma di donna adulta che sono diventata. Allo stesso tempo, di contro, nella mia testa si andava costruendo un’immagine altra, che in quella forma non si identificava e in cui non ha mai potuto abitare veramente. Mi collocavo, e mi colloco tuttora, in un punto x di quell’ampio ed eterogeneo spettro di genere compreso tra i due poli femminile e maschile. Ma da preadolescente, con le nozioni canoniche di educazione alla sessualità e all’affettività che la nostra generazione aveva in dotazione, non ho trovato altro modo che esprimere il disallineamento rispetto alla mia forma se non pianificandone l’annullamento progressivo attraverso una “morte per fame”. Non è che non apprezzassi il mio seno, le mie cosce o i miei fianchi per quanta ciccia ci stava o non ci stava sopra, ma perché il loro insieme mi rimandava un’immagine che vedevo come un corpo estraneo o non pienamente rispondente alla mia auto-percezione.

Dopo un’adolescenza ingolfata dentro maglioni di lana bucati taglia XXL, riadattando Kurt Cobain a guru del fashion, ho cominciato a frequentare alcuni ragazzi e a vivere contestualmente le prime esperienze sessuali. Mentre il mio corpo si “sessualizzava”, il disallineamento rispetto alla mia forma si attenuava. Pensavo di essermi riappacificata con questa condizione di disforia, di aver infine trovato un mezzo per garantire alla mente e al corpo una coesistenza armonica. Il sesso restituiva al corpo una funzione, seppur nella forma in cui si era sviluppato e in cui io non mi riconoscevo. Esistevo come oggetto di desiderio capace di ricevere e restituire piacere (seppur con delle limitazioni importanti nelle modalità espressive, ma questo argomento lo rimandiamo alla fase 2 della quarantena, quando si sarà sciolto circa l’85% dei ghiacciai). Con l’insorgere della vulvodinia quell’equilibrio si è spezzato. Il corpo è tornato a essere uno spazio non più abitabile, malato, disfunzionale o a-funzionale, pertanto non più valido. Così ho ripreso a contrastarlo con tutte le energie e le risorse che avevo a disposizione. Prendo coscienza soltanto ora di aver introiettato un pattern comportamentale tipico del sistema di potere patriarcale, sottoponendo il mio stesso corpo a quel test di validazione che da millenni gli uomini hanno imposto ai corpi delle donne. Il corpo della donna esiste e ha una funzione soltanto come oggetto in grado di soddisfare precise istanze (sesso e procreazione, in primis), altrimenti smette di essere utile e non v’è più ragione di legittimarne l’esistenza.

A prescindere dalla mia storia personale, problematizzando il tema della sessualizzazione e dell’oggettificazione del corpo femminile, il caso Telegram ha riportato in evidenza una criticità che trasversalmente tutte le donne cis e trans-gender si trovano ad affrontare ogni giorno: veder sottoposto, e a volte inconsapevolmente sottoporre (perché anche le donne in questa società, con il suo sistema di valori e il suo squilibrio di poteri, nascono, crescono e vivono), il proprio corpo alla legittimazione attraverso lo sguardo maschile. Si tratta di un gigantesco bias culturale che ci riguarda tutti e che soltanto insieme possiamo cercare di scardinare.

Nella mia esperienza di donna vulvodinica o – d’ora in poi mi prendo il diritto e il dovere di riconoscerlo –  di persona vulvodinica, la sottrazione della componente sessuale nella vita affettiva ha esercitato un peso enorme perché ha inceppato il mio meccanismo di auto-validazione; allo stesso tempo dalla parte opposta, non ho trovato un interlocutore che fosse in grado di recepire i miei desideri e i miei bisogni e di cercare insieme a me modalità di espressione dell’affettività alternative e/o complementari a quelle convenzionali. Questo non è un atto d’accusa: nutro un affetto profondo e autentico per il mio ex-compagno, mi ha insegnato ad approcciarmi al quotidiano con la leggerezza e il pragmatismo che nella mia famiglia sono sempre mancati, ma entrambi non avevamo le risorse emotive e cognitive necessarie per rieducarci e rimodularci sia come singoli che come coppia al di fuori delle classiche strutture relazionali etero-normate. Il mio errore fin dalla pubertà, ma soprattutto in questi ultimi cinque anni, è stato quello di insistere testardamente a ricavarmi un posto nella sghangheratissima banda di finzione delle persone normali; sforzare di adattarmi a strutture di pensiero, modelli di comportamento e costrutti di genere e di relazione a cui non potevo o non volevo conformarmi; ma sopra ogni cosa, legare la validazione del mio corpo a un principio di funzionalità (corpo sano vs. corpo malato) e al giudizio di valore che lo sguardo del mondo esterno (e il mio sguardo interno fino a poco fa) mi restituiva unicamente in qualità di oggetto strumentale all’esercizio del piacere (e, di conseguenza, di un certo grado di potere).

Tutti i corpi sono validi, a prescindere dal sesso biologico, dal genere e dall’orientamento sessuale, dal peso, dal colore della pelle e dalle loro condizioni di salute. Accartocciamo ‘sti diari alimentari e affondiamo l’uovo di Pasqua. Olè.