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[Il mio corpo è un alfabeto – Rileggendo Febbre di Jonathan Bazzi]

Alla voce “diagnosi” il dizionario online della Treccani recita: La diagnosi dal latino diagnōsis, attraverso il greco antico διάγνωσις (diágnōsis), da διαγιγνώσκειν (diaghignóskein, capire), formato da διά (diá, attraverso) + γιγνώσκειν (ghignóskein, conoscere), è la procedura di ricondurre un fenomeno o un gruppo di fenomeni, dopo averne considerato ogni aspetto, a una categoria. In medicina effettuare una diagnosi significa identificare, attraverso lo studio del quadro clinico del paziente e della sua anamnesi familiare, una patologia e le eventuali comorbilità a questa associate. Dare un nome alla malattia, dunque, così da mapparne l’eziologia, esaminarne le manifestazioni più o meno ricorrenti e, laddove praticabile, elaborare un protocollo terapeutico per curarla o contenere i danni.

Avevo 25 anni e nove mesi di peregrinazioni ospedaliere alle spalle quando ho ricevuto la mia diagnosi: nevralgia del nervo pudendo che, come riporta Orphanet – il portale di informazione sulle malattie rare e i farmaci orfani –, consiste in un dolore neuropatico cronico, spesso associato a una disfunzione pelvi-perineale senza una causa organica specifica. È una patologia multifattoriale, e in quanto tale, risponde a molti nomi e a nessuna identità, ragion per cui non esiste un protocollo univoco per i soggetti che ne sono affetti: c’è chi sperimenta sedute di biofeedback neuro-muscolare, chi si sottopone a infiltrazioni di anestetico per il blocco del nervo, chi si risolve a fare colazione con un mix di anti-depressivi, miorilassanti e anti-convulsivanti, chi ancora, raggiunto il proprio zenit di sopportazione del dolore, accetta l’impianto sottocutaneo di un neuromodulatore sacrale. Sono tutti esperimenti, la risposta varia da paziente a paziente e, come riportato da molte testimonianze, spesso non c’è risposta alcuna. La malattia impatta gravemente sulla vita lavorativa del paziente, fino a determinarne l’invalidità e la perdita dell’autosufficienza, senza considerare le pesanti ricadute sulla sfera sessuale che limitano o annullano la possibilità di costruire relazioni affettive durature. Il corpo si trasforma ben presto in una cavia destinata alla vivisezione da parte di luminari della scienza medica: ginecologi, urologi, neurologi, gastroenterologi, psicoterapeuti infine, perché i distretti nelle pelvi sono tutti strettamente interconnessi e la psicanalisi è la deriva comune più diretta di questo percorso di scoperta, diniego, rabbia e accettazione della patologia. Il malato familiarizza a tal punto con gli aghi dell’elettromiografia, le sonde per le tens, i beveroni nauseanti per le colonscopie, che questi dispositivi entrano prepotentemente nella sua agenda quotidiana, scandita dalle visite mediche, dal ritiro dei referti in ospedale e dagli striduli bip bip dei porta-pillole. La persona diventa il paziente e il corpo s’identifica con la malattia, con tutte le limitazioni, l’isolamento e lo stigma che questo processo di sovrapposizione comporta. Il malato è una variabile di segno negativo in una società di soggetti sani, rappresenta un fattore disfunzionale da monitorare al fine di arginarne il potenziale destabilizzante. La sua identità si costruisce per difetto, attraverso uno schema di sottrazione: se il diritto a esistere, a dirsi essere vivente nel mondo, si fonda sull’essere malati, allora la patologia si impone come l’unica cornice narrativa possibile per descrivere se stessi e l’unica finestra di osservazione sul mondo esterno. Se il paziente smette di riconoscersi in quanto malato, continua comunque a esistere?
Confrontarsi con la malattia quando si è giovani è più complesso perché inaspettato. Stupidamente inaspettato. A vent’anni la sofferenza del corpo appare una prerogativa esclusiva della vecchiaia, il fondale di un futuro remoto, l’ipotesi di una guerra con la morte procrastinabile all’infinito. Il corpo giovane conosce il travaglio amoroso, la nausea prima di un esame universitario, il mal di testa da postumi, ma il dolore fisico, quello che sfibra al punto da uccidere, è una variabile che raramente entra in gioco quando si è giovani. Per questo, quando ci si ammala, si ha la netta percezione di esser lasciati indietro, di non poter tenere il passo con gli altri, di camminare al rallentatore: la Terra prosegue a girare senza di te, che spendi le ultime energie residue ingorgato in code chilometriche alla ASL per sottoporti ad accertamenti a cui di solito non seguirà nessuna epifania. Scavi negli organi, affondi nei vasi sanguigni, frughi nei nuclei cellulari per individuare la crepa iniziale e ripristinare lo status quo, la convergenza di circostanze favorevoli su cui si reggeva la tua vita prima dell’insorgere della malattia. Malattia come evento spartiacque che segna un pre e un post irriconciliabili tra loro, malattia che occupa tutto lo spazio a disposizione, agisce da motore propulsore di ogni azione, si impone come il punto di fuga in cui vanno a morire tutte le utopie di vita che avevi progettato. Il paziente è vivo solo se prova dolore, lo stimolo doloroso si sostituisce al battito cardiaco.

Ecco, Jonathan Bazzi è partito da un virus, l’HIV, e da una condizione, la sieropositività, per dare voce a un magma narrativo che origina dal suo corpo e investe il mondo intero. Firma un memoir che, ben lontano dall’etichetta di genere LGBT, si rivela come un romanzo-persona perché si pone interrogativi che sono propri dell’esperienza umana nel mondo: come si sopravvive a una famiglia sconquassata? Si può scappare dalla provincia, dalla periferia-ghetto che chiude l’orizzonte e svilisce ogni aspirazione? Come ci si libera dalla corazza di scetticismo in cui ci siamo murati per resistere agli urti, alle perdite e alle rinunce? Quanto coraggio serve per innamorarsi, prendersi cura e farsi curare? Come si viene a patti con un corpo che è una gabbia, che da guscio si tramuta in sarcofago? È doveroso provare vergogna per un corpo malato, lo si deve nascondere e silenziare? O piuttosto quel corpo può diventare il canale per raccontare la propria storia e con essa la storia di ogni infermità, anomalia, estraneità, di tutte le più profonde solitudini? Come si può sconfiggere lo stigma se non sfidando il binomio malattia-tabù? Come si impedisce che la menomazione fisica si traduca in mutilazione sociale?

In un solido flashforward tra infanzia, adolescenza e vita adulta, in cui allo sguardo schietto e naif del bambino si alterna la prospettiva lucida e disincantata dell’uomo, Jonathan si e ci interroga sulla definizione dell’identità – cosa rende un individuo quel che è? – e sul se e come si possa sopravvivere a un trauma – si è condannati a essere superstiti per sempre, persone vive per metà? O la crisi può rappresentare uno strumento utile per imparare qualcosa di nuovo? Queste domande si snocciolano dentro una lingua-poesia, dotata di una forza immaginativa talmente potente che la parola cede spesso il posto all’immagine e il corpo si fa alfabeto, codice di una lingua inventata, ancora tutta da decifrare, per rinominare il mondo e tornare ad abitarlo.

[Jonathan Bazzi, Febbre, Roma, Fandango, 2019].