Ieri pomeriggio sono stata alla personale fotografica di André Kertész al Centro Culturale di Milano in Largo Corsia dei Servi. La mostra riunisce 90 scatti realizzati da Kertész tra l’Ungheria rurale della Grande Guerra e la New York luminosa e sorniona dei primi anni ’80, dove il bianco e nero nitido e risoluto della Leica cede il testimone ai colori opachi e alle superfici zigrinate della Polaroid, passando per la Parigi surrealista di Mondrian, Man Ray e e Chagall fino a chiudersi su uno scorcio d’oceano rubato dalla finestra di una stanza d’albergo in Martinica.
Non conoscevo Kertész, fatta eccezione per i due o tre scatti più diffusi tra i vari canali mediatici, il Vetro Rotto e La Sparizione sopra tutti. Sono stata spinta ad andare alla mostra dalla mia curiosità per gli spiriti errabondi, che hanno per casa i loro piedi e per radici i propri occhi. E ne sono uscita sopraffatta dalla meraviglia (non è casuale la scelta della didascalia “Lo stupore della realtà” che accompagna il nome del fotografo nei manifesti pubblicitari): meraviglia per il bisogno di ritagliare parentesi di serenità anche nella disperazione di una trincea e di restituirle con ironia; per la maniacale attenzione sinestetica al dettaglio che caratterizza gli still-life (fissi una forchetta poggiata sul bordo di un piatto e simultaneamente riesci a percepire la sonorità fresca del metallo, il calore delle gocce d’acqua sotto cui è stata sciacquata poco prima che appanna appena l’immagine, il retrogusto leggero di limone del sapone che lascia i rebbi raggrinziti); per l’impertinenza bambina con cui un elemento del tutto decontestualizzato arriva sempre a perturbare l’ordine costituito, a sovvertire lo status quo, a deformare l’epidermide della realtà e a mostrarne il doppio attraverso il gioco del chiaroscuro, il ricorso sapiente all’ombra e l’impiego ragionato dello specchio; per la scelta di rappresentare il mondo attraverso forme circolari e spiraliformi in cui tutti gli angoli si smussano, la linearità del tempo si frammenta, il dialogo tra le persone i luoghi e le storie può avvenire soltanto dentro prospettive non convenzionali che affaticano, estraniano e stupiscono lo sguardo, in cui l’alto e il basso si invertono, la sinistra e la destra si confondono, la luce non cade mai dritta, ma si infila tra i soggetti della narrazione fotografica in un incastro di diagonali che si rincorrono come le scale impossibili di Escher.
Sopra ogni cosa, tuttavia, sono stata travolta dal’intensità dell’amore sprigionato nelle foto in cui Kertész si ritrae insieme alla moglie: il viso di lei diretto frontalmente alla camera, illuminato da un sorriso indecifrabile da Monnalisa mitteleuropea, congiunto a quello di lui, girato sempre in direzione di Elizabeth, cullato nell’incavo del suo collo – la casa che accoglie, sfama e riscalda – che si scopre tra uno chignon magnetico di capelli corvini e un abito bianco panna, da festa di paese a primavera.
E quale scala è più illogica e necessaria di un amore così?