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[“Chiudi”: reportage R.E.M. di una quarantena]

Nella notte tra giovedì e venerdì ho fatto un sogno: ero seduta nella mia cucina di Milano, i gomiti sul tavolo, davanti il computer su cui sto lavorando dall’inizio di marzo. La luce già calda e pastosa delle dieci di mattina sgusciava tra le ante della finestra aperta, riversandosi leggera tra le nervature del legno della credenza, nelle pieghe dei cuscini adagiati sul divano per poi incunearsi giocosa in mezzo agli ingranaggi della macchinetta del caffè. Laddove la luce si posava in questo peregrinare curioso e svagato, gli oggetti pungolati dal suo tocco si ritrovavano fasciati in piccole bolle di velluto liquido e trasparente – crisalidi, ricordo di aver detto a voce alta nel sogno. Crisalidi a riposo. In preparazione per la stagione dei ciliegi. Non un movimento nel cortile interno, né di persona, né di cosa né di animale, non una parola a grattare il silenzio tra le mura degli appartamenti. Il cuore pompava il sangue ai polmoni molto lentamente, i respiri si allungavano come muscoli ben tesi, i nodi che tenevano cucite le spalle in un gomitolo di pelle bitorzoluta e croccante si scioglievano a poco a poco, e i nervi ne gioivano, attraversati dallo stesso guizzo frizzante che ci titillava la lingua mentre da bambini ci rigiravamo tra i denti i cubetti di ghiaccio depositati sul fondo dei bicchieroni di latte e menta, consumati nei pomeriggi d’estate a casa delle nonne. Crisalidi, ho ripetuto tra me e me. Crisalidi oppure sacche delle flebo. Ho messo in stand-by il computer, mi sono alzata per studiare più da vicino le nuove fattezze della macchinetta del caffè: ho allungato un dito per forare la superficie della bolla, la scorza della mia pelle ancora screpolata per i postumi dell’inverno, s’è fatta d’acqua, al posto delle dita sono comparse tante catene di goccioline viscose come lacrime artificiali e lucide come ossa. Si arrampicavano decise fino al polso, per poi conquistare l’avambraccio e infine scivolare giù lungo la schiena, seguendo la linea sconnessa della colonna vertebrale, sobbalzando divertite tra un dosso e l’altro, solleticando le piante dei piedi, danzando intorno all’arcipelago dei cinque nei ospitati in linea retta sulla mia coscia sinistra. Sacche delle flebo, ho pensato. Morfina che scende, goccia dopo goccia, ed entra dritta nelle vene, rilassando, silenziando, sbiancando. “Ma che sto per morire che mi date tutta ‘sta morfina?”, aveva domandato mio padre all’infermiere la sera dell’undici febbraio 2013, quando per l’ultima volta il suo circuito venoso sbrindellato veniva collegato tramite un’ingegneria di aghi e tubi all’asta della flebo. La sacca d’acqua magica, appollaiata in cima al trabiccolo, per un’altra sera ancora, aveva donato l’oblio e restituito il sonno. Nel sogno, d’improvviso, la luce fuori s’era fatta più forte, nel giro di qualche istante un vento di fuoco freddo spalancava le ante della finestra, il legno degli scuri ululava, nella cucina cadeva una fuliggine gelatinosa che si appiccicava agli zigomi, si infilava nelle narici, scheggiava i denti, raspava sotto le ascelle e tra le gambe, non era il buio neanche la notte né la penombra, ma un grigio invalicabile, una bestia cieca e invisibile, un oceano di grigio che spingeva da fuori per entrare, stringere e soffocare. Con tutto il peso del mio corpo mi sono lanciata contro i vetri delle finestre per isolare la cucina dall’esterno, CHIUDI CHIUDI CHIUDI, le sue ultime tre parole all’alba tra l’undici e il dodici febbraio 2013, CHIUDI CHIUDI CHIUDI, c’è troppa luce, spegni la luce, chiudi la finestra, spegni la luce, CHIUDI CHIUDI CHIUDI. Quando mi risveglio nel mio letto di Milano, spalanco la finestra su Viale Lombardia. Sono le cinque del mattino, la strada è completamente sgombra, l’asfalto risparmiato dall’usura quotidiana si stiracchia ancora nel dormiveglia tra le fila di alberi sui due lati; dall’area cani di Piazzale Piola non arrivano i soliti latrati, indisciplinati come le risate che esplodono dalle pance dei bambini; nessuna moka borbotta ancora sul piano cottura.
Una calma totale.

kafka

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Meno neon e più sole, shrinks.

Il 4 ottobre 2018 ho sottoscritto un “protocollo terapeutico” per richiedere il ricovero nella UOP di un ospedale di Milano. Reparto disturbi di ansia generalizzata e disordini del comportamento alimentare. Il contratto prevedeva una degenza di 28 giorni: nelle prime due settimane il paziente non è autorizzato a uscire dal reparto. Il padiglione consta di una quindicina di stanze da due letti ciascuna, disposte ai lati di un corridoio, soffitto basso luci al neon deboli linoleum verde pisello di quello che fa suonare le ciabatte con un fragoroso ciaf ciaf. Il paziente non è autorizzato a camminare lungo il corridoio, se non per recarsi nella sala mensa durante gli orari dei pasti o per svolgere la seduta con il proprio terapeuta/psichiatra un’ora al giorno durante i giorni feriali. Se il paziente viene colto dagli ausiliari o dagli infermieri a transitare per il corridoio, viene rispedito immediatamente in camera. Nella camera, il paziente lo nota subito, mancano dei pezzi di arredamento fondamentali: non ci sono grucce negli armadi né appendini per gli asciugamani in bagno, le finestre non hanno le maniglie e le serrande elettriche possono essere sollevate solo su richiesta e sotto la supervisione del personale. I bagni, non c’è bisogno di specificarlo, sono chiusi per almeno due ore dopo ogni pasto. Se si considera che la giornata prevede quattro pasti obbligati, i bagni sono sempre chiusi. Indiscriminatamente, anche per pazienti che non ricorrono al vomito come mezzo di purga. Per accedervi il paziente deve suonare un campanello messo a sua disposizione ed espletare quello che ha da espletare di fronte all’infermiere/ausiliario di turno. Al suo arrivo in reparto il paziente viene pesato, come da copione, con le spalle alla bilancia, sottoposto a una serie di analisi del sangue e al processo cosiddetto di “spoglio”: il personale requisisce il telefono cellulare che per tutta la durata della degenza potrà essere utilizzato soltanto un’ora la sera; gli oggetti potenzialmente pericolosi per l’autoconservazione del paziente vengono sequestrati e riposti in “cassette degli oggetti speciali” che devono essere richiesti e utilizzati sotto sorveglianza solo in determinate fasce orarie. Tra questi oggetti si annoverano pinzette per le sopracciglia, rasoi elettrici, forbicine per le unghie, spazzole per i capelli. Per l’intero periodo di degenza il paziente può ricevere una sola visita a settimana se maggiorenne, tre a settimana se minorenne. Massimo due persone alla volta. Nella terza e quarta settimana il paziente valuta insieme al proprio terapeuta se poter beneficiare del diritto all’uscita. Un’ora al giorno. Al rientro nel padiglione, il paziente viene “spogliato” nel senso letterale del termine dal personale che si accerterà di verificare che non sia in possesso di oggetti o medicinali che potrebbero mettere a repentaglio la sua sopravvivenza. Che è la priorità. A ogni costo. Anche se questo obiettivo implica il ricorso all’accanimento terapeutico tramite installazione del sondino naso-gastrico. Il paziente deve sopravvivere. Biologicamente mantenersi in vita. Artificialmente e contro la sua volontà.
Io quel contratto l’ho rescisso la mattina del 5 ottobre 2018. Tutto quello che ho visto in neanche 24 ore resta con me e ci è voluto un anno e mezzo e una pandemia per scriverne. Ma più che mai ora questo è il tempo: terapeuti e psichiatri che state sperimentando sulla vostra pelle il dissesto emotivo arrecato da questo regime di quarantena senza data di scadenza, riprendete in mano gli studi di Basaglia, ricordatevi che il paziente è prima di tutto un essere umano e può salvarsi solo attraverso il contatto con l’esterno, privarlo di diritti inalienabili non può che aumentarne il carico di sofferenza psichica con cui già convive. L’anoressia, insieme agli altri disordini del comportamento alimentare, è una forma molto sofisticata e disciplinata di suicidio a lungo termine. La luce è indispensabile, in questo momento storico non suona più così banale, vero?
Meno neon e più sole, shrinks.

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Quarantene e Fat-Talking

La prima settimana di quarantena volge al termine, facciamo il punto.

Al di là delle nostre attività lavorative ordinarie (laddove nella categoria semantica “ordinario” ormai ricade anche “rispondere al telefono aziendale deviato sul tuo laptop che trilla ogni due minuti e 50 secondi con i quesiti degli studenti sugli scenari più distopici del post-3 aprile, per i quali servirebbe un corso di formazione in chiaroveggenza, e tra cui ci diverte annoverare lo smantellamento del MIUR e il ritorno a uno stato di civiltà pre-scrittura strutturata sul modello socio-economico del cacciatore/raccoglitore, in cui la discussione della tesi occupa uno spazio piuttosto risicato); abbiamo letto di tutto, dai manuali di bridge agli atti giudiziari del processo contro Wilde (ma de La Recherche ci restano soltanto i biscotti al limone); abbiamo sperimentato maschere di bellezza a base di scarti organici dei nostri estratti agli spinaci; seguito tutorial di Zumba tra il divano-letto e l’asse da stiro; annaffiato le piante grasse (adesso bona lì fino alla prossima pandemia); pulito la casa con una dedizione tale da entrare in uno stato di connessione spirituale con i comodini e infine cucinato. Chi più chi meno, ma le home FB e i feed Instagram pullulano di foto dei manicaretti in cui abbiamo infuso tutta l’energia e la creatività repressa da anni di reportistica Excel (i miei taralli di ieri, sciapi quanto il pane toscano, ne sono il primo esempio). Ci sta, lavorare con le mani ci ancora alla terra, aumenta la produzione di endorfine, limita le vertigini da ansia e claustrofobia.
E poi abbiamo mangiato. Mangiato per fame, per nervosismo, per noia, per solitudine. Ed è partito, più virale del COVID-19, il leitmotiv: “Quando tutto questo sarà finito, saremo così grassi che non usciremo dalle porte”.
È una frase sbagliata? Sì e no.

bsDi per sé l’immagine di un esercito di mutanti fatti di pasta al forno e besciamella che tra X mesi (sull’incertezza dell’orizzonte temporale di questa pandemia leggetevi l’ultima newsletter di Francesco Costa) uscirà dalle proprie case ingolfata e inebetita può suscitare ilarità. Per chi non ha mai sperimentato disturbi alimentari, ha sempre avuto un rapporto positivo con il proprio corpo e non è mai stato oggetto di fat-shaming, questa frase strappa soltanto un sorriso. Se magna, ci si inchiatta, chissene frega, chilo più chilo meno. Non per tutti la sequenza di causa-effetto è così liscia, ma non voglio esprimere un parere giudicante né su chi posta foto di leccornie (anzi, vorrei avanzare istanza di adozione di fronte alle vostre crostate) né su chi con queste battute cerca di smorzare la tensione e la noia da clausura. Lo scrivo per ricordarmi e ricordarci quanto le parole possono esercitare un peso diverso per ogni essere umano in base al suo vissuto.
Quando pesavo 35 kg per 1.57 m molte persone mi incontravano per strada e mi chiedevano: “Ma ci siamo proprio messi a stecchetto, eh?”, mentre quando ho ricominciato a prendere chili fino a raggiungere il mio normopeso in base all’indice di massa corporea (che sui parametri scelti per la definizione del normopeso e sulla validità di certi protocolli nutrizionali punitivi rimando tutto alla chiaroveggente che ha più competenza in materia di tanti nutrizionisti sguinzagliati a far danni tra diete dell’acqua, dell’avocado ma solo in abbinamento ai pistacchi caramellati, o della parmigiana di melanzane in un regime di digiuno intermittente), la frase standard era: “Ammazza, Giulia, ci stiamo a ingrassà per bene”. Ecco, per un soggetto anoressico/bulimico/ortoressico/vattelapesca normopeso sentirsi dire: “Ce stiamo a ingrassà” equivale a una fucilata con una carabina. E non si tratta di fragilità emotiva, ma di uno stato di discomfort tale rispetto al proprio corpo da volerlo annullare con una morte per fame. Per l’amico che te lo dice, “ce stiamo a ingrassà” sì traduce in “ti vedo in salute, meno male, stavi con un piede nella fossa”. Dallo spazio-tempo in cui mi trovo adesso riesco a identificare l’affetto che si nasconde dietro quella sequenza di parole, ma quando ero/sono dentro quello stato di discomfort non può che restituirmi un senso diffuso di repulsione per il corpo in cui mi trovo ad abitare e di inadeguatezza per come lo nutro. Ne deriva una disforia che pervade la quotidianità e che ti porti appresso in ogni occasione di aggregazione sociale che implichi il consumare del cibo in compagnia. Un anno fa stare chiusa in casa quattro settimane senza poter camminare tot km al giorno, guardandomi allo specchio e stringendo la ciccia sui fianchi e sulle cosce là dove normalmente si trova, beh, mi avrebbe precipitata in un abisso di paranoia. E un abisso è un abisso. Non è un’iperbole. E lo stesso cortocircuito si genera nella testa di chi col fat-shaming ci combatte da una vita, che per la forma del suo corpo deve giustificarsi, sentirsi in colpa, essere accusato di finanziare l’industria del junk-food quando spesso mangia in maniera salutare e ci ha tutti i valori delle analisi a posto, da una vita gli vengono consigliate diete e riceve abbonamenti in palestra per compleanno, ma deve parallelamente districarsi tra 250 canali Telegram di cucina con photo-shooting di Kate Moss versione tiramisù. Mica semplice, ragazzi. In conclusione, la presa di coscienza che “quando e se usciremo da questa quarantena, non passeremo dalle porte” si può dire, si può scrivere, se ne può ridere, ma facciamo attenzione a chi abbiamo di fronte, alle parole che scegliamo e a come le mettiamo in fila indiana. Perché 2+2 fa 4, ma non sempre, non per tutti.