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Wage Labour is not the Only Fruit

Nel 1985 Jeanette Winterson pubblica “Orange İs Not the Only Fruit”, un autobiopic di formazione che racconta la scoperta dell’amore, della sessualità e dell’identità di una ragazza lesbica cresciuta in una comunità pentecostale ultraconservatrice del Regno Unito. Le arance, che la madre le impone come pressoché unico tipo di frutta consentito, si trasformano in un correlativo-oggettivo della normatività: tutto cioè che esula da un perimetro predeterminato di comportamenti, parole e relazioni viene categorizzato come estraneo e nocivo al regolare funzionamento del sistema.

Dopo gli ultimi giorni di meltdown personale, ho ripreso a leggere e ascoltare le notizie sui miei canali di informazione dove, in vista della presentazione delle proposte per l’impiego del Recovery Fund da parte dei governi nazionali alla Commissione UE, le politiche per l’occupazione femminile sono spesso, e a buon diritto, al centro dei dibattiti. Tuttavia, continuo a ravvisare una criticità nella narrazione del binomio lavoro-donne che ha origine nel nostro bias concettuale del lavoro come principale metro del valore. Non fraintendetemi, l’indipendenza economica dalla propria famiglia di nascita e/o intenzionale è un obiettivo fondamentale nella lotta alle discriminazioni e il diritto di accesso al lavoro deve essere tutelato per le donne e per tutte le altre soggettività a cui è sistematicamente precluso. Tuttavia, sostenere che dobbiamo “creare occupazione femminile per favorire la crescita del PIL” e “permettere alle donne di liberarsi del lavoro domestico per occupare le stesse posizioni degli uomini” implica:
1) l’adesione a un impianto socio-economico neoliberista che è dannoso per tutti i membri della comunità, uomini compresi; 2) l’idea che esiste una quantità di potere limitato che non può essere con-diviso, ma solo diviso attraverso la competizione; 3) il rafforzamento del binarismo carriera/famiglia come coppia di antipodi autoescludenti; 4) la svalutazione del lavoro di cura come attività degradante, anziché remunerativa sul piano emotivo e relazionale ancorché economico, qualora riuscissimo un giorno a salarizzarla (il messaggio che passa è: la cura non si sceglie mai liberamente, te la ritrovi tra capo e collo come una zavorra, da cui la nostra percezione di anziani, minori, persone con disabilità fisica e/o psichica come impedimenti al percorso di crescita degli individui e delle loro comunità intese come mere unità di produzione); 5) l’invalidità sociale di chi si trova al di fuori del mercato del lavoro per scelta o contingenza, laddove il lavoro si concepisce come determinante imprescindibile del valore individuale e passpartout di legittimazione sociale; 6) la costruzione di una genitorialità come ostacolo al lavoro, da cui deriva una riduzione dei tempi e degli spazi sia della maternità che della paternità (da non concepirsi come esperienze obbligate, ma in quanto frutto di scelte consapevoli e autodeterminate che devono poter essere godute come opportunità di mutua formazione, sia del genitore che del figl*); 7) la gerarchizzazione del pubblico (come dimensione della produzione) e del privato (come dimensione del tempo sospeso/perso/morto perché sganciato dalle logiche dell’accumulazione del capitale) in una scala di valore per cui, anziché ristrutturare progressivamente i tempi e i luoghi del lavoro in maniera bio-compatibile (lavorando per obiettivi e non più per fasce orarie, per esempio), nella migliore delle ipotesi (che quasi mai si implementa) si forniscono bonus e benefit per demandare la cura e la formazione dei propri figl*, cani e rinoceronti a enti terzi (senza considerare il tempo necessario alla cura di se stess*).

Stante la necessità di garantire a tutte le soggettività il diritto alla piena autodeterminazione della propria persona in ogni dimensione, è importante ricordarci che non ci sono solo le arance, che le arance non sono l’unico frutto. E piuttosto che “mettere” – con una buona dose di paternalismo – “le donne in condizione di accedere alle stesse posizioni e realtà lavorative degli uomini” (obiettivo che comunque non può prescindere dalla decostruzione dei bias di genere molto radicati a livello sociale e tuttora impattanti sul diritto di accesso e di scelta nell’istruzione) dovremmo provare a immaginare un sistema in cui tutti i generi abbiano più di un binario tra cui scegliere per esprimersi e legittimarsi come esseri sociali; in cui i figl – se desiderat* – non siano considerat* un ostacolo alla crescita economica perché “impediscono alle risorse di partecipare alla catena di produzione e monetizzazione del valore”; in cui ci si impegni quotidianamente per le pari opportunità delle donne non per trasformarle in cloni degli uomini, ma perché il portato della loro esperienza nel mondo – così come di tutte le altre identità -, con la sua eterogeneità e specificità di punti di vista e istanze, disponga delle condizioni necessarie per esprimersi in tutto il suo potenziale a vantaggio dell’intera comunità sociale. Dovremmo ammettere, in conclusione, che le arance non sono la norma, che nessun frutto lo è, che ognuno è l’orizzonte normativo di se stess* sulla base dei propri desideri, bisogni e vocazioni. L’obiettivo del femminismo, quantomeno quello intersezionale in cui oggi si struttura il nostro attivismo politico, è d’altronde questo: lottare per l’autodeterminazione delle donne con il fine ultimo di liberare tutte le soggettività da più variabili di discriminazione, nella cui intersezione si moltiplicano le probabilità di marginalizzazione economica, sofferenza psicofisica e isolamento relazionale.