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Quarantene e Fat-Talking

La prima settimana di quarantena volge al termine, facciamo il punto.

Al di là delle nostre attività lavorative ordinarie (laddove nella categoria semantica “ordinario” ormai ricade anche “rispondere al telefono aziendale deviato sul tuo laptop che trilla ogni due minuti e 50 secondi con i quesiti degli studenti sugli scenari più distopici del post-3 aprile, per i quali servirebbe un corso di formazione in chiaroveggenza, e tra cui ci diverte annoverare lo smantellamento del MIUR e il ritorno a uno stato di civiltà pre-scrittura strutturata sul modello socio-economico del cacciatore/raccoglitore, in cui la discussione della tesi occupa uno spazio piuttosto risicato); abbiamo letto di tutto, dai manuali di bridge agli atti giudiziari del processo contro Wilde (ma de La Recherche ci restano soltanto i biscotti al limone); abbiamo sperimentato maschere di bellezza a base di scarti organici dei nostri estratti agli spinaci; seguito tutorial di Zumba tra il divano-letto e l’asse da stiro; annaffiato le piante grasse (adesso bona lì fino alla prossima pandemia); pulito la casa con una dedizione tale da entrare in uno stato di connessione spirituale con i comodini e infine cucinato. Chi più chi meno, ma le home FB e i feed Instagram pullulano di foto dei manicaretti in cui abbiamo infuso tutta l’energia e la creatività repressa da anni di reportistica Excel (i miei taralli di ieri, sciapi quanto il pane toscano, ne sono il primo esempio). Ci sta, lavorare con le mani ci ancora alla terra, aumenta la produzione di endorfine, limita le vertigini da ansia e claustrofobia.
E poi abbiamo mangiato. Mangiato per fame, per nervosismo, per noia, per solitudine. Ed è partito, più virale del COVID-19, il leitmotiv: “Quando tutto questo sarà finito, saremo così grassi che non usciremo dalle porte”.
È una frase sbagliata? Sì e no.

bsDi per sé l’immagine di un esercito di mutanti fatti di pasta al forno e besciamella che tra X mesi (sull’incertezza dell’orizzonte temporale di questa pandemia leggetevi l’ultima newsletter di Francesco Costa) uscirà dalle proprie case ingolfata e inebetita può suscitare ilarità. Per chi non ha mai sperimentato disturbi alimentari, ha sempre avuto un rapporto positivo con il proprio corpo e non è mai stato oggetto di fat-shaming, questa frase strappa soltanto un sorriso. Se magna, ci si inchiatta, chissene frega, chilo più chilo meno. Non per tutti la sequenza di causa-effetto è così liscia, ma non voglio esprimere un parere giudicante né su chi posta foto di leccornie (anzi, vorrei avanzare istanza di adozione di fronte alle vostre crostate) né su chi con queste battute cerca di smorzare la tensione e la noia da clausura. Lo scrivo per ricordarmi e ricordarci quanto le parole possono esercitare un peso diverso per ogni essere umano in base al suo vissuto.
Quando pesavo 35 kg per 1.57 m molte persone mi incontravano per strada e mi chiedevano: “Ma ci siamo proprio messi a stecchetto, eh?”, mentre quando ho ricominciato a prendere chili fino a raggiungere il mio normopeso in base all’indice di massa corporea (che sui parametri scelti per la definizione del normopeso e sulla validità di certi protocolli nutrizionali punitivi rimando tutto alla chiaroveggente che ha più competenza in materia di tanti nutrizionisti sguinzagliati a far danni tra diete dell’acqua, dell’avocado ma solo in abbinamento ai pistacchi caramellati, o della parmigiana di melanzane in un regime di digiuno intermittente), la frase standard era: “Ammazza, Giulia, ci stiamo a ingrassà per bene”. Ecco, per un soggetto anoressico/bulimico/ortoressico/vattelapesca normopeso sentirsi dire: “Ce stiamo a ingrassà” equivale a una fucilata con una carabina. E non si tratta di fragilità emotiva, ma di uno stato di discomfort tale rispetto al proprio corpo da volerlo annullare con una morte per fame. Per l’amico che te lo dice, “ce stiamo a ingrassà” sì traduce in “ti vedo in salute, meno male, stavi con un piede nella fossa”. Dallo spazio-tempo in cui mi trovo adesso riesco a identificare l’affetto che si nasconde dietro quella sequenza di parole, ma quando ero/sono dentro quello stato di discomfort non può che restituirmi un senso diffuso di repulsione per il corpo in cui mi trovo ad abitare e di inadeguatezza per come lo nutro. Ne deriva una disforia che pervade la quotidianità e che ti porti appresso in ogni occasione di aggregazione sociale che implichi il consumare del cibo in compagnia. Un anno fa stare chiusa in casa quattro settimane senza poter camminare tot km al giorno, guardandomi allo specchio e stringendo la ciccia sui fianchi e sulle cosce là dove normalmente si trova, beh, mi avrebbe precipitata in un abisso di paranoia. E un abisso è un abisso. Non è un’iperbole. E lo stesso cortocircuito si genera nella testa di chi col fat-shaming ci combatte da una vita, che per la forma del suo corpo deve giustificarsi, sentirsi in colpa, essere accusato di finanziare l’industria del junk-food quando spesso mangia in maniera salutare e ci ha tutti i valori delle analisi a posto, da una vita gli vengono consigliate diete e riceve abbonamenti in palestra per compleanno, ma deve parallelamente districarsi tra 250 canali Telegram di cucina con photo-shooting di Kate Moss versione tiramisù. Mica semplice, ragazzi. In conclusione, la presa di coscienza che “quando e se usciremo da questa quarantena, non passeremo dalle porte” si può dire, si può scrivere, se ne può ridere, ma facciamo attenzione a chi abbiamo di fronte, alle parole che scegliamo e a come le mettiamo in fila indiana. Perché 2+2 fa 4, ma non sempre, non per tutti.