[Me lo spieghi come se avessi sei anni]

Ci insisto anche di domenica mattina, prima di mettermi a preparare una torta salata radicchio e patate con così tante uova da poter rivendicare il diritto alla maternità della “Quiche Lorraine sbagliata” ibridata col Paris Brest. Ci ho già la risposta congelata nel freezer alla toto-domanda “Che fai per Capodanno 2021?”, festività nella quale, facendo fede alle promesse che ci siamo scambiati su Whatsapp nell’ultimo mese e mezzo, ci troveremo tutti insieme a Milano dalle aree più disparate del pianeta a celebrare in una petroniana notte di gozzoviglie Pasqua, Pasquetta, il 25 aprile, il 1 maggio, il 2 giugno, Ferragosto e soprattutto il mio compleanno, che sceglierei come nuovo anno zero da cui ricominciare a calcolare il tempo in un mondo post-pandemico libero dalle uova, dalle polarizzazioni manichee che ci vedono schierati gli uni contro gli altri come galli nelle lotte clandestine, ma soprattutto da una cultura di “informazione tossica”, che continua a essere promossa e sfruttata da molti attori istituzionali e mediatici come strumento di controllo, riorientamento e capitalizzazione delle paure più primordiali dell’essere umano – la solitudine, la malattia e la morte.

Ci insisto perché l’ordinanza di Regione Lombardia sull’imposizione dell’utilizzo delle mascherine denota tre errori riscontrati cronicamente nella gestione istituzionale della pandemia da COVID-19 fin dalla sua insorgenza.

1) Lo scollamento dalla realtà dei fatti.
Regione Lombardia è a conoscenza, mi auguro, che per i cittadini risulta già un traguardo trovare al supermercato i guanti per pulire il water – richiedere per legge di indossare le mascherine per uscire di casa quando sulle vetrine di ogni farmacia milanese campeggia a caratteri cubitali la sconfortante informativa “MASCHERINE ESAURITE, NON SAPPIAMO SE E QUANDO RITORNERANNO” instilla un senso profondo di abbandono e spaesamento, dai quali non può che conseguire una crisi di fiducia nella correttezza e consapevolezza dell’operato da parte delle istituzioni.
2) La trasmissione di un messaggio fuorviante e pericoloso perché anti-scientifico.
Richiedere per legge di uscire di casa muniti di mascherina OPPURE di una sciarpa/foulard determina la diffusione di un’informazione non vera, ovvero “una sciarpa ti garantisce lo stesso grado di protezione dal contagio di una mascherina con filtro FFP2 o FFP3”. Da cittadino, spaventato per la mia incolumità e quella dei miei famigliari, se non ho a disposizione le risorse culturali e cognitive per mettere in discussione quest’assunto, ci credo. Così come credo alle mascherine fai da te con la carta forno intrisa dell’olio dell’ultima parmigiana che ho infornato o modellata con gli scampoli di carta regalo avanzata da Natale. Ci credo perché non ho alternative, perché per finalizzare il check-out della mia spesa on-line ho sudato così tanto come non capitava dalla corsa contro il tempo su Ticket-One per accaparrarci i biglietti dei Pearl Jam nel 2018 (e io scrivo dentro la bolla del privilegio di chi non ha figli, ha una madre autosufficiente, ha ancora un lavoro e uno stipendio con cui pagare l’affitto – non tutti possono concedersi lo spazio-tempo di queste riflessioni perché la loro priorità è sopravvivere e garantire una prospettiva di futuro alle proprie famiglie).
3) L’incapacità di implementare un approccio realmente trans-nazionale e multidisciplinare.
Questa pandemia nasce come una crisi di salute pubblica che si è rapidamente tradotta in un’emergenza socio-economica di carattere globale. L’adozione di provvedimenti su base nazionale (o addirittura regionale/statale nel caso degli stati federali – Caso Italia: a quali soggetti e in base a quali parametri effettuiamo i tamponi? Caso US: perché Andrew Cuomo ha imposto il lockdown sullo Stato di NY mentre il governatore della Georgia ha ammesso di aver scoperto solo due giorni fa che anche gli asintomatici possono essere contagiosi?) senza un coordinamento sulla tipologia e sui tempi di attuazione delle misure genera una risposta fallimentare già in partenza. Se in un mondo così interconnesso, sprofondato in una crisi trans-nazionale, il bene comune si declina come sopravvivenza della MIA collettività (e spesse volte soltanto di una porzione infinitesimale al suo interno) a discapito di tutte le altre, le fondamenta non possono che cedere. La rimonta del localismo nella ridefinizione del concetto di bene pubblico si inserisce in quell’eterogeneo crescendo di -ismi (razzismo, sessismo, classismo, eteronormatività e cis-genderismo, maschilismo, fascismo etc.) che ha permesso l’ascesa delle c.dette democrazie illiberali e ne ha legittimato la trasformazione in autocrazie (previo voto parlamentare come nell’esempio ungherese della scorsa settimana).
Oltre a essere scoordinata a livello sovra-nazionale, anche nei singoli Stati la risposta istituzionale è dissezionata tra innumerevoli centri di potere che non sembrano comunicare tra loro o non sono in grado di coordinarsi in un dialogo prospettico. Non si può parlare di cassa integrazione per i lavoratori dipendenti, senza elaborare un piano strutturato di medio-lungo corso per gli autonomi e quelli al nero. Non si può affermare che l’approvvigionamento dei beni di prima necessità, come alimentari e farmaci, sarà garantito se abbiamo gli autotrasportatori fermi alle frontiere e i campi pieni di asparagi e fragole già marci per essere raccolti, senza implementare dei provvedimenti per la regolarizzazione e la tutela dei lavoratori stagionali. Non si possono sottoporre gli operatori sanitari a condizioni e orari di lavoro così logoranti senza garantire un servizio di supporto psicologico pubblico h24. Non si possono imporre limitazioni alla libertà di circolazione così restrittive senza considerarne l’impatto sulle carceri, sulle vittime di violenza domestica e sui malati psichiatrici.
Per questo apprezzo e promuovo l’iniziativa che ogni sabato mattina dal 21 marzo l’Associazione Luca Coscioni si impegna a organizzare: quasi quattro ore di dibattito tra esperti autorevoli di vari ambiti, dalla microbiologia alla virologia, dal diritto costituzionale all’ingegneria informatica, dall’economia alla comunicazione. Perché io sul contact tracing potrei anche essere d’accordo, ma rivendico il diritto di conoscere con precisione quali soggetti giuridici gestiranno i miei dati, di che dati stiamo parlando, per quanto tempo e con quali finalità (tutti i podcast li trovate QUI).
Come diceva Denzel Washington in Philadelphia, me lo spieghi come se avessi sei anni.
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